Io ho sempre creduto al lieto fine delle storie belle, quelle che non hanno orchi cattivi che escono dai boschi, o che se li hanno poi questi, alla fine, vengono sconfitti.
Ma questa volta, tocca arrendersi alla realtà che non si sposa sempre con quel che si desidera o che si crede giusto per sé e per la propria famiglia.
ll tribunale per i minori dell'Aquila ha decido: i 3 bambini della coppia Catherine e Nathan che vivevano in un casolare nel bosco, a contatto con la natura, devono stare in una casa famiglia a Vasto. La loro mamma è con loro, ma al piano di sopra della struttura. I suoi 3 figli sono al piano di sotto, e “sono tristi” - dice Catherine parlando piano, come se ogni parola potesse infrangersi subito dopo averla proferita.
Parla senza rabbia, la donna; non accusa nessuno, non cerca colpevoli.
È una situazione che va affrontata, che avrà delle conseguenze.
Per ora esiste un dato di fatto: i bambini devono rimanere lì, in quel luogo che non è proprio una casa, perché malgrado sembri un “rifugio”, è una dimensione sospesa, nella quale tutto è rimasto in pausa: la loro vita di prima, le risate, i sogni, l'odore della natura e del pane cotto a legna, le parole sussurrate, il silenzio del bosco dove la famiglia ha scelto di vivere, come alternativa al caos cittadino.
Quando si parla di bambini la parola “protezione” nasce naturale; ma in questo caso quel “proteggere” ha creato inevitabilmente una frattura.
La mamma dei bambini parla commossa, ma con la lucidità di chi ha un cuore che non si arrende.
Perché le sue creature sono state portate via non solo dalla naturale vita alla quale erano abituati, ma anche dalla loro storia, che si è inceppata senza che loro possano comprendere appieno gli eventi.
Quei bimbi che di giorno guardano il mondo spaesati, e di notte abitano letti che hanno odori che non riconoscono.
La laro mamma è al piano di sopra.
Li sente.
Sente la figlia più grande che fa la coraggiosa, che prova a “proteggere” i fratellini, forse molto più di questa scelta del tribunale.
Sente tutto il loro smarrimento, ma le regole si rispettano. Non può andare da loro.
Resta sveglia, con le mani intrecciate sul ventre, mentre guarda il soffitto. Da sotto la porta arriva la luce che rimane accesa nei corridoi per tutta la notte, come se sapesse che lì in fin dei conti, nessuno riesce a dormire per davvero.
Tutta la notte a contare minuti e respiri. Ma anche le lacrime che trattiene per farsi coraggio e per non far capire ai bambini tutta la sua disperazione.
Si chiama dolore. Ed anche sgomento.
Quello che accomuna tutti coloro che vivono in stanze diverse pur desiderando di potersi abbracciare.
Quello che accomuna chi deve subire decisioni insindacabili, chi deve essere razionale pur conoscendo la caratura dell'amore.
Quello che accomuna bambini costretti a crescere troppo in fretta e madri che devono restare, anche quando non è possibile “stare” lì dove il ruolo di madre le porrebbe.
Catherine rimane lì.
Immobile.
Mentre tutto intorno a lei scorre inesorabilmente.
Un'altra notte.
Un nuovo giorno.
Al piano di sopra.
Perché non sarà un piano, una porta, una regola a separare un cuore dall'amore che resta.
